Lectio Divina XXIXV Dom. Tempo Ordinario A Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo
Questa solennità fu istituita dal papa Pio XI con l’enciclica "Quas prìmas" dell’11 dicembre 1925, a conclusione dell’anno santo. Si stabilì che tale celebrazione avesse luogo l’ultima Domenica di ottobre, a conclusione del «mese missionario». La riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II l’ha trasferita poi alla Domenica ultima dell’anno liturgico. L’Anno liturgico, che è propriamente 1’«Anno della divina Grazia», si apre, e si chiude, con la visione grandiosa e terribile del «Signore che viene» all’ultimo dei tempi. In realtà, un Anno liturgico non è mai fine a se stesso. La «teologia simbolica» ci aiuta a comprendere che esso è il «segno»di un ciclo completo, simbolo della vita degli uomini nel mondo. Tuttavia paradossalmente tale circolo non è chiuso, ma aperto, a spirale in crescendo e disposto sapientemente in modo tale che il Principio debba essere identico alla sua Fine.
Come già si è accennato, nei cicli la solennità di Cristo Re, chiude l’anno riportando la visuale alla Gloria finale del Signore: puntualmente, precisamente ripresa dalla Dom. I di Avvento del ciclo successivo.
Ciclo A Dom. 34a, la Venuta finale con il Giudizio
Ciclo B: Dom. la di Avvento: la Venuta finale
Ciclo B: Dom. 34a, la Venuta del Re eterno
Ciclo C: Dom. la di Avvento: la Venuta finale
Ciclo C: Dom. 34a , la Venuta del Re Crocifisso con il Regno suo
Ciclo A Dom. la di Avvento: la Venuta finale
e così proseguendo senza interruzioni.
Nella Scrittura il termine «Re». applicato sia al Dio Vivente, sia al suo Inviato, il Re messianico, significa sempre al di là perfino della gloria regale infinita o finita, il «Salvatore» del popolo dell’alleanza. I 3 cicli liturgici del Rito romano propongono perciò opportunamente 3 aspetti diversi e convergenti della Regalità del Signore Risorto, non a caso invariabilmente nell’aspetto salvifico:
- II ciclo A presenta Cristo come il "Pastore dell’umanità" e, allo stesso tempo, come giudice supremo dei vivi e dei morti; il risorto viene a riprendersi gli eletti suoi dopo il Giudizio (Mt 25,31-46: Evang.; Ez 34,11-12.15-17: I lett.).
- Il ciclo B nell’umiltà estrema dell’abbassamento causato dalla Passione volontaria, il Re testimonia al mondo il Regno-Salvezza per il popolo di Dio: prima davanti al tribunale religioso giudaico, egli si era identificato col personaggio annunziato da Daniele (cfr. la lett. Dn 7,13-14); davanti a Pilato con la dichiarazione «Tu lo dici: io sono re» (Gv 18,33-37: Evang.); al mondo, perché Gesù è risuscitato, il «primogenito dei morti, il principe dei re della terra» (II lett. Ap 1,5-8).
- Il ciclo C fa notare come l’investitura regale (cfr. 2 Sam 5,1-3: la lett.) sia avvenuta proprio sulla croce (Lc 23,35-43: Evang.). Ma Gesù non è solo Re dei giudei, come dichiara il titolo posto sulla croce, ma è capo del corpo della Chiesa e Signore di tutte le cose, redente e riconciliate nel suo sangue (Col 1,12-20).
Il Re dunque vuol dire solo il Salvatore: gli orpelli del manto con ermellino, della corona gemmata, del globo e dello scettro in mano, togliamoli di mezzo una volta per sempre. Sta sulla croce per risorgere e venire col suo regno di salvezza; anno per anno, tutto questo è oggetto di anamnesi[2]5,6).
vv. 35-36 Ecco la motivazione della sentenza: l’enumerazione, con il numero simbolico
di 6 «opere di carità». L’elenco che enumera affamati, assetati, forestieri, nudi, malati e prigionieri ripete gli schemi tradizionali delle opere di misericordia previsti dalla Bibbia: Is 58,7; Tb 4,16 e Gb 22,6-7; 31,17.19.21.
Anche nella letteratura giudaica, si trovano motivi molto simili: vestire gli ignudi, ospitare i forestieri o i pellegrini e visitare gl’infermi. Gesù, nella motivazione determinante dell’ultima sorte, allude quindi all’insegnamento dell’AT e del giudaismo, ma supera l’antico nel senso seguente: le opere di carità ricordate sono una manifestazione del precetto fondamentale dell’amore, e non semplici opere benefiche compiute senza spirito di benevolenza. D’altra parte, l’insegnamento di Gesù esclude lo spirito di calcolo con cui, a volte, quelle opere erano compiute nel giudaismo. Dio restava obbligato. Si compivano perché Dio non potesse fare a meno di premiarle. In altre parole, le opere ricordate non erano compiute per Dio, ma contro Dio, per legargli le mani e obbligarlo a premiare i suoi devoti. Un travisamento della fede che diventa così “religione”. La sentenza definitiva è dunque fondata sui motivi di servizio caritativo al prossimo bisognoso. Questo non va contro la predicazione di Gesù sulla necessità della conversione, sulla fede, sui comandamenti, sul precetto dell’amore, sulla purezza del cuore, sull’umiltà, sulla filiazione divina, sulla rinunzia, sulla necessità di portare la croce. L’enumerazione che Gesù fa in questa occasione non è esclusiva, ma complementare: vuole mettere in evidenza l’importanza preponderante che ha, per lui, il precetto dell’amore manifestato appunto in queste opere. Non esclude il resto, e anzi, lo suppone. Il Re Giudice si appropria al passivo di queste opere, che dichiara come riferite a lui, fatte alla sua stessa Persona.
vv. 37-39: Chi ha operato questo, è la moltitudine chiamata adesso dei «giusti». Essi hanno operato e basta; non hanno fatto indagine sui meritevoli di aiuto, né chi fossero gli aiutati. Le opere di carità ricordate hanno il merito di essere state compiute in onore di Gesù. Tanto quelli di destra come quelli di sinistra restano sorpresi davanti alla dichiarazione del giudice e si rivolgono a lui, esprimendo la loro meraviglia. In questo modo, si espone chiaramente un principio che abbatte molte barriere: le opere compiute per amore sono liberate da ogni genere di limiti che condizioni il loro valore. Sono premiate le opere compiute per amore del prossimo bisognoso. Gesù si rivolge a tutti indistintamente, dimostrando così che, anche fuori dell’ambito visibile dei suoi discepoli, della sua Chiesa, vi può essere un vero regno e un vero «cristianesimo». La sentenza pronunziata per quelli che si trovano alla sua sinistra sta a indicare la separazione eterna da Cristo e, per conseguenza, dalla vita, senza che le sue parole facciano supporre una predestinazione alla condanna. La loro mancanza di amore, cosa personale, ha determinato la loro destinazione alle pene senza fine. Le parole di Gesù parlano della fissazione definitiva della sorte degli uomini in quel momento supremo.
«quando...»: i giusti, sorpresi , pongono alla motivazione della sentenza un’interrogazione perfettamente simmetrica, ripercorrendo le 6 opere della «giustizia» (cfr. Mt 6.3). La domanda con buona probabilità è un espediente stilistico, come altre volte negli Evangeli, che serve a spezzare una esposizione monotona e a sottolineare un punto importante dell’argomento trattato. Inoltre, la ripetizione alla lettera anche di lunghi brani in una narrazione di tipo colloquiale è una caratteristica propria della narrativa orientale.
v. 40 La risposta del Re è l’affermazione decisiva di tutto il brano, introdotta dalla formula solenne: «Io il Dio Amen, il Fedele, parlo a voi».
«fratelli più piccoli»: rimanda in prima istanza ai discepoli, accolti come si accoglie il loro Signore (Mt 10,40-42). Continuando, i fratelli di Gesù sono coloro che si fanno piccoli per entrare nel regno (18,1-5); anche chi esegue la Volontà del Padre suo, è suo fratello e sorella e madre (12,50).
La Resurrezione inaugura la sua fraternità (28,10), che deve essere portata al mondo, essendo ormai «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Sorprende che nella pagina dell’evangelo chi operò la giustizia-carità ignorava tutto questo!
vv. 41-45 la seconda parte della scena è sviluppata in parallelismo antitetico con la prima. Lo stesso procedimento stilistico ricorre in 7,24-27: «24Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. 26Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande».
La materia dell’azione giudiziale all’ultimo, non saranno le dottrine, la fede, la speranza, la santità, bensì tutte queste se presero corpo nella giustizia-carità ai fratelli. Ancora una volta la Tavola 2a della Legge santa, i doveri verso il prossimo, è assunta come criterio di giudizio; la Tavola Ia , i doveri verso Dio, è significativamente taciuta: «Chi ama il prossimo adempì la Legge» (Rm 13,8-10; Gal 5,14).
L’ultimo quadro può dunque riguardare il giudizio per l’umanità intera, soprattutto per quelli che non hanno conosciuto il Cristo, cioè né ebrei né cristiani: anche loro saranno giudicati dal Re Messia, non in base alle attese profetiche né alla fecondità evangelica, bensì con il criterio dell’attenzione all’uomo bisognoso. Infatti tutti gli interpellati reagiscono, dicendo di non aver mai visto il Cristo: fra loro però la differenza è data da un generoso servizio verso l’affamato, l’assetato, il nudo, il forestiero, il malato, il carcerato.
La novità proposta dalla pagina dell’evangelo non sta nelle opere di misericordia, ma nell’identificazione del Messia con i suoi fratelli più piccoli: il criterio di giudizio è dunque cristologico, seppur implicitamente. Il destino eterno di ogni uomo si gioca quindi nel temporale rapporto di accoglienza o di rifiuto del Cristo: e ciò avviene nella persona di ogni uomo.
v. 46«supplizio eterno... vita eterna»: il castigo e il premio sono «eterni», perché trattandosi di un giudizio «finale», la sentenza che in esso si emette riveste carattere definitivo ed è irrevocabile.
La collocazione di questo capitolo in Matteo alla conclusione del discorso finale di Gesù fa pensare che esso sia stato inteso come l’ultima parola di Gesù ai suoi discepoli. Il cap. è di enorme importanza teologica.
In ultima analisi, è l’amore che determina se un uomo è buono o cattivo; se il nostro amore è attivo, l’insuccesso nel realizzare una moralità perfetta in altri campi sarà infrequente, e comunque sarà perdonato.
Ma non esiste nessun sostituto dell’amore attivo.
Antifona alla Comunione Sal 28,10-11
Re in eterno siede il Signore:
benedirà il suo popolo nella pace.
Il testo di oggi forma un’inclusione letteraria eucaristica, molto interessante, in quanto si usa per la Domenica del Battesimo del Signore e per la Domenica ultima, quindi al principio e al termine dell’arco grandioso detto Tempo per l’Anno. L’Orante alla fine del suo canto vuole confessare la fede e la gioia, riconoscendo e acclamando il suo Signore, il Vivente, quale Sovrano eterno. Qui l’eternità non è vista come un futuro, ma come un illimitato presente (v. 10b). Il Salmista gioisce per questo anche altre volte (10,37), in genere dopo un annuncio profetico (Ger 10,10). Il Signore regna come Sovrano dal suo trono inaccessibile, e tuttavia viene a unirsi al popolo suo, e questo pronome possessivo come sempre indica l’alleanza. Viene per benedirlo, e poiché «la benedizione torna sempre sul Benedicente e unisce a Lui il benedetto», fa comunicare quest’ultimo alla pace divina (v. 11b). Il rimando è alla «benedizione sacerdotale» di Nm 6,24-26: «24Ti benedica il Signore e ti custodisca. 25Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. 26Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace»; Sal 27,9. Paolo riprende questo tratto in Fil4,7: «E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù».
«Oggi qui», al termine benedetto dell’Anno della divina grazia, noi fedeli contempliamo in questo canto e in questa comunione la visione iniziale della nostra vera vita, la visione terminale del nostro pellegrinare sulla terra. Il Padre, il Sovrano eterno, il Re della pace e della verità, il Re Salvatore che dona la sua benedizione trasformante ai figli suoi benedetti, oggi una volta di più dona lo Spirito suo Tuttosanto e Buono e Vivificante nella Parola che Lo testimonia e nel Convito nuziale preparato per il Figlio.
Le preghiere di colletta I:
Dio onnipotente ed eterno,
che hai voluto rinnovare tutte le cose
in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo,
fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato,
ti serva e ti lodi senza fine.
Per il nostro Signore...
La preghiera fa anamnesi che il Padre nel Figlio, che elesse a Re dell’universo, volle ricapitolare tutto (Ef 1,10), e con epiclesi chiede che la creazione intera, liberata dalla schiavitù del peccato e della corruzione, dia culto alla divina Maestà e giunga alla lode eterna.
II Colletta
O Padre, che hai posto il tuo Figlio
come unico re e pastore di tutti gli uomini,
per costruire nelle tormentate vicende della storia il tuo regno d’amore,
alimenta in noi la certezza di fede,
che un giorno, annientato anche l’ultimo nemico,
la morte, egli ti consegnerà l’opera della sua redenzione,
perché tu sia tutto in tutti.
Egli è Dio, e vive e regna con te ..
La preghiera confessa chiede e supplica il rafforzamento della fede della comunità cristiana nel Padre che consacrò il Figlio Sacerdote eterno come Re e Pastore unico per l’opera della nostra redenzione. Assogettando così l’intera creazione al suo dominio salvifico può riconsegnare al Padre il Regno che ha le note della verità, della vita, della santità, della grazia, della giustizia, della carità e della pace cfr. prefazio proprio:
«Tu con olio di esultanza
hai consacrato Sacerdote eterno
e Re dell’universo il tuo unico Figlio,
Gesù Cristo nostro Signore.
Egli, sacrificando se stesso
immacolata vittima di pace sull’altare della Croce,
operò il mistero dell’umana redenzione;
assoggettate al suo potere tutte le creature,
offrì alla tua maestà infinita il regno eterno e universale:
regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia,
regno di giustizia, di amore e di pace».
lunedì 16 novembre 2020
Abbazia Santa Maria di Pulsano